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Invito alla lettura: “IL MIRACOLO DELLA ROSA” di Jean Genet

 

Il miracolo della rosa è un’opera che, allo stesso modo del suo autore, rifugge qualsiasi tentativo di categorizzazione o incasellamento di carattere letterario. Lo stesso Jean Genet rifiuta di affibbiare al suo lavoro l’etichetta di ” romanzo biografico”, laddove quest’ultimo non rappresenta affatto una ricostruzione cronologicamente lineare di una serie di esperienze dirette o di ricordi propri di Genet stesso, ma piuttosto una reinterpetazione caotica, soggettiva ed unica (nell’accezione stirneriana del termine) espressa attraverso un linguaggio squisitamente poetico, visionario e ricco di immagini, simboli e metafore capaci di proeittare il lettore in quell’universo continuamente intrecciato – dove forse sarebbe ancor più corretto dire sovrapposto – ad una parte considerevole della vita dell’autore: la galera.

Ne Il miracolo della rosa Jean Genet tratta della prigione – scrivendo proprio nella condizione di detenuto di una delle peggiori carceri francesi all’epoca dell’occupazione nazista dei primi anni 40′- come di una parte di se stesso, della sua stessa identità. Emarginato, precocemente abbandonato dalla madre, sin dall’infanzia cresciuto all’interno di quella grande palestra di vita rappresentata dall’illegalismo inteso nelle sue svariate forme, per tutta l’adolescenza internato nella colonia penale di Mettray (e non solo) in cui sperimenta, vive e gode in maniera violenta, ma al contempo dolce, gioisa la sua omossessualità ( postura mediante la quale cattura la bellezza connaturata alla giovinezza), scassinatore autodidatta e solitario, poi galeotto rispettato e appartenente alla cerchia dei ”duri”; il lettore scopre nelle narrazioni di Genet un’individualità selvaggia capace di amare, sognare, odiare e fare proprio- nel bene e nel male – il carcere e la sua condizione di carcerato. Ciò che più sorprende di questa originalissima opera intrisa di dolore, sopravvivenza e contrattacco ai meccanismi annichilenti dell’istituzione totale carcere, è la capacità di raccontare gli altri raccontando se stessi appropriandosi delle sensibilità, dei gesti, delle voci, di tutto ciò che rende irripetibili le individualità dei galeotti conosciuti, odiati e soprattutto ferventemente amati all’interno della colonia penale e del carcere. Scrivendo l’autore rivive la sua infanzia nella vita della colonia e nei rapporti con gli altri coloni, nei loro rituali, nelle esperienze erotiche, nell’amicizia e nella solidarietà di fronte all’inferno della detenzione. Così, assieme alle storie e alle personali interpretazioni delle altrettanto personali esperienze di vita di Genet, ci si imbatte in piccoli e grandi detenuti, magnaccia, ladri, accattoni, assassini di bambini e di infami guardie, che, nonostante le condanne all’ergastolo, alla pena di morte, nonostante l’infanzia stuprata dalla colonia e dai soprusi dei secondini, quotidianamente si battono per manifestare e affermare la propria volontà di vivere, di volere e di godere del mondo, di continuare a desiderare. Perciò nessuna passività, nessuna rassegnazione, ma tentativi plurimi di evasione, rivolte, risse, storie di amori tra coloni e detenuti che anche se situate all’interno di un contesto che agisce ed educa alla violenza, sanno essere cariche di dolcezza, vicinanza e calore (ed ecco che l’amore si esprime in un detenuto che si priva dell’unico tozzo di pane che riceve per donarlo al suo amato, che la solidarietà si attiva nella condivisione e nel mutuo appoggio a fronte delle antipatie e degli odii di superficie).

Genet nel riproporre in forma scritta e poetica i suoi vissuti, i ricordi, le sensazioni e le emozioni passate e presenti – nel farlo in maniera ”sregolata”, sulla base dell’ immedietazza del proprio flusso di coscienza e dell’emergere spontaneo delle proprie passioni – pone in rilievo alcune figure che acquistano un vero e proprio pathos mitologico in relazione non solo alla vita dell’autore stesso, ma anche a quella di tutti i detenuti, dei compagni di viaggio di Genet all’interno del carcere di Fontvrault; tra questi l’imponente, affascinante ed eroico Harcomonne, condannato alla pena di morte per aver brutalmente assassinato una bambina e poi una guardia carceraria, e Bulkaen, giovane e intrepido scassinatore oggetto del folle amore e del pressante desiderio erotico di Genet.

Il miracolo della rosa non è opera di un’individualità esplicitamente anarchica ed antiautoritaria – l’autore afferma di preferire la figura del ”duro” e dello scassinatore a quella del giovane anarchico e terrorista – ma è una testimonianza unica nel suo contenuto e nella forma attraverso la quale questo viene trasmesso, la narrazione della volontà di vivere e desiderare l’impossibile anche di fronte alla consapevolezza di dover passare il resto della propria vita costretto all’interno di quattro mura incatenato, spiato e torturato sistematicamente. Nel suo sofferto lavoro Genet ci racconta una molteplicità di esperienze di resistenza alla galera ribadendoci la necessità di sbarazzarcene il prima possibile e una volta per tutte.