Qui di seguito due estratti del libro “Errico Malatesta e la violenza rivoluzionaria” di Alfredo Maria Bonanno, edito da Edizioni Anarchismo. Una interessante analisi del pensiero di Malatesta sulla violenza rivoluzionaria, la responsabilità e la questione morale, la quale ci mostra come egli sia stato un rivoluzionario capace di esporre in modo concreto e chiaro i principi e le questioni morali che affronta, di modo che questi concetti possano slegarsi da un contesto storico e sociale rigidamente definito e aggiungersi a dei ragionamenti generali, in un mondo che, oggi come ieri, è segnato da oppressione e violenza. Sempre tenuto conto che autrici come Malatesta, cioè autori “rispettabili” e “famosi” (secondo Bonanno “la fama è faccenda del potere”, sono i nemici e i loro dossier polizieschi a fare delle anarchiche dei personaggi famosi) sono da leggere, come sostiene l’ autore, non come testi da cui trarre un insegnamento o dei punti di riferimento, ma come “un’ occasione di lettura”, “un incidente di percorso”. “…non siamo né cristiani che leggono la Bibbia in un certo modo, né marxisti che leggono Marx in un certo modo”. I leader vanno demoliti, o meglio ancora, vanno demolite le proiezioni che creiamo dentro di noi e che le trasformano in realtà.
Nota introduttiva: Bonanno scrive questo testo nel 2003, in occasione del convegno anarchico di Napoli su Malatesta.
(Malatesta) Anche noi abbiamo l’ animo amareggiato da questa necessità di lotta violenta. Noi che predichiamo l’ amore e che combattiamo per raggiungere una stato sociale in cui la concordia e l’ amore siano possibili tra gli uomini, soffriamo più di tutti della necessità in cui siam posti di difenderci colla violenza contro la violenza delle classi dominanti. Ma rinunziare alla violenza liberatrice quando essa resta l’ unico mezzo che possa metter fine alle sofferenze diuturne della grande massa degli uomini ed alle stragi immani che funestano l’ umanità sarebbe farsi responsabili degli odii che si lamentano e dei mali che dall’ odio derivano. (“Umanità Nova” 27 aprile 1920).
(Bonanno)L’ autorizzazione morale all’ impiego della violenza rivoluzionaria si trova proprio nella necessità del suo impiego. Questa necessità trova origine dal pericolo in corso che miliardi di uomini e di donne corrono a causa dell’ oppressione e dello sfruttamento. Se fosse soltanto una scelta tra la pace e la violenza gli anarchici per primi sceglierebbero la pace, essendo sostenitori dell’ amore e della fratellanza universale. Ma non si tratta di una scelta. Essi, come tutti coloro che sono animati dalla volontà di far finire l’ odio che strazia l’ umanità, sono obbligati a segliere la violenza. Certo, i sostenitori dell’ oppressione, quelli che la esercitano direttamente e coloro che da essa ne traggono beneficio, difficilmente condividerebbero questa conclusione. Anzi, più si va verso una società capace di amministrare il dominio attraverso la pace sociale, più ci si accorge che i discorsi ideologici si fanno sottili, tutti gli oppressori parlano di pace e fratellanza, tutti accusano chi vuole liberarsi dall’ oppressione di intolleranza e di violenza (a questo proposito è stato coniato apposta il concetto spurio di “terrorismo”). La pressione esercitata sulla formazione pubblica dell’ opinione corrente è tale che molti (la gran massa della gente) sono seriamente convinti di essere tolleranti anche quando partecipano nel modo più diretto allo sfruttamento e alla repressione. La società in cui viviamo, e via via quella che sta profilandosi sempre più con chiarezza per i prossimi decenni, è scarsamente definibile con i canoni rigidi della divisione in classi dell’ epoca di Malatesta. Eppure, nonostante queste cresciute difficoltà, ci si può dire certi che da qualche parte il nemico continua a costruire i suoi paradigmi di potere, e che milioni di suoi collaboratori rendono possibile l’ applicazione di questi paradigmi. Colpire queste trame e gli uomini che le realizzano è proprio trarsi fuori dalla responsabilità che finisce per cadere su tutti coloro che non attaccando si rendono complici della realizzazione di quei progetti di potere. Ma perché questa responsabilità derivante dal non agire, dal lasciare che le cose continuino ad andare come vanno, quindi di non affrontare fino in fondo le conseguenze repressive inevitabili di un’ azione per forza di cose violenta, perché mai questa valutazione morale deve considerarsi autoevidente? Questa domanda è importante. Infatti può essere benissimo che il proprio modo di non partecipare, di astenersi (poniamo limitandosi a non votare) possa essere considerato un modo sufficente per tagliare il cordone ombelicale di quella responsabilità. Difatti siamo in questo caso di fronte a una vera e propria azione positiva diretta a intralciare il meccanismo repressivo gestionario che ci sovrasta. Io penso che le persone devono sentirsi responsabili (non venire giudicate tali da qualcuno) solo di ciò che sanno. Se qualcuno è veramente convinto che basta (poniamo) non votare per assolvere al suo crimine partecipativo nei riguardi delle istituzioni, allora è giusto che in buona fede si ritenga assolto da qualsiasi responsabilità. Ma quale persona appena appena informata sulla realtà che tutti ci ospita può arrivare a queste conclusioni senza ridersi in faccia da solo? Più egli avanza nella conoscenza della società in cui vive, più si documenta e si aggiorna, e più il suo cuore insorge contro i palliativi che la mente raziocinante aveva trovato per mettere a tacere la coscienza. Solo che spesso i nostri interessi quotidiani: la famiglia, la carriera, i soldi, ecc., ci fanno velo e gli sforzi per spostare questo velo non sono quasi mai adeguati alla luce abbagliante che esso nasconde, alla fine ci convinciamo da soli che gli unici responsabili dello sfruttamento e dell’ oppressione sono soltanto glisfruttatori e gli oppressori, e voltandoci dall’ altra parte continuiamo il nostro sonnellino pomeridiano.
(Malatesta) McKinley, il capo dell’ oligarchia nord-americana, lo strumento e difensore dei grandi capitalisti, il traditore dei Cubani e dei Filippini, l’ uomo che autorizzò il massacro degli scioperanti di Hazleton, le torture dei minatori dell’ Idaho e le mille infamie che ogni giorno si commettono contro i lavoratori nella “repubblica modello”, colui che incarnava la politica militarista, conquistatrice, imperialistica in cui si è lanciata la grassa borghesia americana, è caduto vittima della rivoltella di un anarchico. Di che volete che noi ci affliggiamo quando non fosse per la sorte riserbata al generoso che, oppurtunamente o inopportunamente, con buona o cattiva tattica, ha dato se stesso in olocausto alla causa dell’ uguaglianza e della libertà? Lo ripetiamo in questa, come in tutte le occorrenze analoghe: poiché la violenza ci circonda da tutte le parti, noi, continuando a lottare serenamente perché finisca questa orribile necessità di dover rispondere colla violenza alla violenza, pur augurandoci che venga presto il giorno in cui gli antagonismi di interessi e di passioni tra gli uomini si potranno risolvere con mezzi umani e civili, serbiamo le nostre lacrime e i nostri fiori per altre vittime che non siano questi uomini i quali, mettendosi alla testa delle classi sfruttatrici ed opprimenti, assumono la responsabilità ed affrontano i rischi della loro posizione. Eppure si son trovati degli anarchici che han creduto utile e bello insultare all’ oppresso che si ribella, senza avere una parola di riprovazione per l’ oppressore che ha pagato il fio dei delitti che aveva commesso o lasciato commettere! È aberrazione, è desio malsano avere l’ approvazione degli avversari, o è malaccorta “abilità” che vorrebbe conquistare la libertà di propagare le proprie idee, rinunziando spontaneamente al diritto di esprimere il vero e profondo sentimento dell’ animo, anzi falsificando questo sentimento fingendosi diversi da quello che si è? Lo faccio con rincrescimento, ma non posso esimermi dal manifestare il dolore e l’ indignazione che han prodotto in me e in quanti compagni ho avuto l’ occasione di vedere in questi giorni, le inconsulte parole che “L’Agitazione” ha dedicato all’ attentato di Buffalo. “Czolgosz è un incosciente!”- Ma lo conoscono essi? – “Il suo atto è un reato comune che non ha nessuno dei caratteri indispensabili perché un atto consimile possa ritenersi politico!”. Credo che nessun pubblico accusatore, regio o repubblicano, oserebbe sostenere altrettanto. Infatti, v’ è forse qualche motivo per giudicare Czolgosz animato da interessi o rancori personali?…Già, è improprio parlare di delitto in casi simili. Il codice lo fa, ma il codice è fatto contro di noi, contro gli oppressi, e non può servire da criterio ai nostri giudizi. Questi sono atti di guerra; e se la guerra è delitto, lo è per chi in essa sta dalla parte dell’ingiustizia e dell’ oppressione. Possono essere, sono, delinquenti gl’Inglesi invasori del Transwaal; non lo sono i Boeri, quando difendono la loro libertà , anche se la difesa fosse senza speranza di riucita. “L’atto di Czolgosz (potrebbe rispondere “L’Agitazione”) non ha avanzato per nulla la causa del proletariato e della rivoluzione; a McKinley succede il suo pari Roosevelt e tutto resta nello stato di prima, salvo la posizione è diventata un poco più difficile per gli anarchici”. E può darsi che “L’Agitazione” avrebbe ragione: anzi, nell’ ambiente americano, per quanto io ne sappia, mi pare probabile che sia così. Ciò vuol dire che in guerra ci sono le mosse indovinate e quelle sbagliate, ci sono i combattenti accorti e quelli che, lasciandosi trasportare dall’ entusiasmo, si offrono facile bersaglio al nemico e magari compromettono la posizione dei compagni; ciò vuol dire che ciascuno deve consigliare e difendere e praticare quella tattica che crede più atta a raggiunger la vittoria nel più breve tempo e con il meno di sacrifizi possibile; ma non si può alterare il fatto fondamentale, evidente
che chi combatte, bene o male, contro il nostro nemico e con gli stessi intenti nostri, sia nostro amico ed abbia diritto, non certo alla nostra incondiz
ionata approvazione, ma alla nostra cordiale simpatia. Che l’ unità combattente sia una collettività o un individuo solo non può cambiar nulla all’ aspetto morale della questione. Una insurrezione armata fatta inopportunamente può produrre un danno reale o apparente alla guerra sociale che noi combattiamo, come lo fa un attentato individuale che urta il sentimento popolare; ma se l’ insurrezione è fatta per conquistare la libertà, nessun anarchico le negherà la sua simpatia, nessuno soprattutto oserà negare il carattere di combattenti politico-sociali agli insorti vinti. Perchè dovrebbe essere diversamente se l’ insorto è uno solo? “L’Agitazione” ha ben detto che gli scioperanti han sempre ragione, ed ha detto bene, quantunque sia evidente che non tutti gli scioperi siano consigliabili, perché uno sciopero non riuscito può, in date circostanze, produrre scoraggiamento e dispersione delle forze operaie. Perchè quello che è vero nella lotta contro i padroni non lo sarebbe nella lotta politica contro i governanti, che col fucile del soldato e le manette dei gendarmi vogliono asservirci a loro stessi ed ai capitalisti? Qui non si tratta di discutere di tattica. Se si trattasse di questo io direi che in linea generale preferisco l’ azione collettiva a quella individuale, anche perché sull’ azione collettiva, che richiede qualità medie abbastanza comuni, si può fare più o meno assegnamento, mentre non si può contare sull’ eroismo, eccezionale e di natura sua sporadica, che richiede il sacrificio individuale. Si tratta ora di una questione più alta: si tratta di quello spirito di combattività, senza di cui anche gli anarchici si addomesticano e vanno a finire, per una via o per l’ altra, nel pantano del legalitarismo…È stolto, per salvare la vita, distruggere le ragioni del vivere. A che possono servire le organizzazioni rivoluzionarie, se si lascia morire lo spirito rivoluzionario? A che la libertà di propaganda, se non si propaga più quel che si pensa?…(“L’Agitazione”, 22 settembre 1901)
(Bonanno) Rispondendo a Luigi Fabbri, che aveva definito l’ uccisione del presidente americano atto inqualificabile e malgesto di incosciente, si preoccupa prima di tutto di affermare con fermezza la legittimità di qualsiasi attacco contro l’ oppressore. È proprio all’ anarchico attentatore che pensa, non alle conseguenze repressive che l’ atto in questione avrebbe inevitabilmente scatenato. Non prende le distanze, ma si schiera subito a fianco del ribelle. Si fa sostenitore della violenza perché la violenza possa finire al più presto, perché possa finire la necessità di rispondere alla violenza con la violenza. Lamenta che anarchici hanno potuto insultare l’ oppresso che si ribella e definisce questo atteggiamento come malsano desiderio di avere l’ applauso degli avversari. Ecco un punto su cui bisognerebbe fermare la nostra riflessione. Non c’ è condivisione possibile da parte del nemico in questa guerra di classe, non ci sono né regole, né onore delle armi, forse più feroce della stessa repressione materiale è quella che si attua facendo ricorso alle menzogne, alla disinformazione, alle calunnie. Il nemico attacca mettendoci “fuori legge” (preventivamente) e “fuori logica” (successivamente). Afferma che ogni ribellione alle autorità costituite è un andare contro le leggi fatte apposta per garantire la convivenza comune, non capisce come tutto questo possa accadere, come ci possano essere persone che non condividano il mogliore dei mondi possibili, comunque l’ unico mondo perfettibile attraverso le riforme e i miglioramenti. Il fatto è che la logica della ribellione non gli appartiene, è faccenda del tutto incomprensibile per lui, e di questo bisogna farsene una ragione. Non possiamo attaccarlo e pretendere che il potere condivida le regole di questo attacco, anche perché si tratta di un attacco che segue regole diverse di quelle che sostengono i processi della violenza oppressiva. Se ci convinciamo di ciò finiamo per renderci conto che le nostre azioni di attacco contro il potere sono “illogiche”. Non ha senso – cioè non ha senso per la logica del potere e dei benpensanti che dal potere vengono pasciuti – che Czolgosz spari a McKinley, se a qualsiasi McKinley può sempre succedere un Roosevelt. E che questa considerazione venga fatta dal nemico è più che giusto, quello che duole è che spesso viene fatta anche da non pochi compagni. Che senso ha abbattere un traliccio, o milleduecento (quanti negli ultimi quindici anni ne sono stati buttati giù in Italia) se poi l’ Enel ne costruisce altrettanti e in fretta? Che senso ha darsi da fare se questo darsi da fare si riduce a uno sgonfiare il palloncino del figlio del maresciallo? Per capire quale possa essere il senso dei piccoli attacchi diffusi nel territorio bisogna accettare una logica diversa da quella dei padroni e del potere. Ma accettare una logica diversa spesso fa a pugni con quanto di più connaturato possediamo col nostro modo di essere, cioè col nostro modo di pensare. Noi siamo quello che pensiamo e pensiamo quello che siamo. Possiamo pensare certo qualcosa che mai faremmo o saremmo, ma questo pensiero non alberga a lungo nella nostra mente, come fantasia del sabato sera svanisce alle prime luci del lunedì. Malatesta parla di combattenti accorti e meno accorti, di quelli che frenano il proprio entusiasmo e di quelli che da questo si lasciano trascinare, ma non si accorge che la valutazione è fatta dall’ interno di una misura che non ci appartiene. Quando ci muoviamo nell’ azione che cerca di avvicinarci quanto più possibile al nemico per inquietarlo nelle sue certezze, ogni calcolo di convenienza, ogni valutazione tattica, ogni conoscenza tecnica e ogni approfondimento teorico possono assisterci, possono stare tutti al nostro fiano e illuminarci la strada, ma l’ ultimo tratto, quello che solleva l’ animo dagli indugi finali, che tutto stringe nell’ attimo in cui si supera la propria frattura morale, lo dobbiamo fare da soli. Qui ognuno è solo con la propria coerenza morale, con la propria coscienza rivoluzionaria, con il proprio desiderio di farla finita con l’ oppressione e lo sfruttamento. Che importa se dall’ azione viene fuori un gesto approssimativo, qualcosa che la luce logica dell’ abbagliante non contradditorietà valuterà un “malgesto di incosciente”, siamo noi che quell’ azione abbiamo fatto, siamo noi che abbiamo preso la responsabilità non solo dell’ azione in se stessa ma anche di tutte le valutazioni di convenienza, di tattica ecc. E siamo noi che abbiamo deciso di portarla a compimento. La nostra azione, in fondo, siamo noi stessi.